La prima elezione di Cincinnato ai massimi livelli politici
avvenne nel
460 a.C.. Lucio Quinzio fu eletto
consul suffectus (supplente) in sostituzione del console
Publio Valerio Publicola che era caduto durante la riconquista
del
Campidoglio occupato dai ribelli guidati da
Appio Erdonio.
Secondo gli
annalisti, Cincinnato si era dedicato ad una vita di
agricoltura e sapeva che la sua partenza poteva rendere povera
la sua famiglia se in sua assenza i raccolti non fossero stati
curati.
Secondo
Tito Livio lo
storico padovano del
I secolo, viceversa, Lucio Quinzio si era visto costretto in
un podere di quattro
iugeri fuori Roma e oltre il
Tevere, i Prata Quinctia, perché gli erano rimaste le
sole inalienabili terre di
famiglia; aveva dovuto vendere tutti i suoi beni per pagare
una pesante cauzione. Il figlio, Cesone Quinzio, dopo un
processo per omicidio (in realtà un processo politico) basato
sulla testimonianza dell'ex
Tribuno della plebe Marco Volscio Fittore aveva scelto la
fuga in
Etruria, con ciò costringendo il padre a risarcire i
mallevadori.
La descrizione che alcuni fanno di Cincinnato come agreste
coltivatore, si scontra con l'acume politico e giuridico che
questi dimostra nel corso di questo suo mandato. Lucio Quinzio
fu eletto suffectus nel dicembre del 458 a.C. e la
maggioranza dei senatori (patrizi, quindi) si era battuta per
questo. I plebei erano intimoriti dal fatto di vedere al rango
consolare una persona che nutriva un grande risentimento contro
di loro per l'esilio di Cesone Quinzio e per la situazione
finanziaria del padre Lucio. E non avevano del tutto torto;
Cincinnato prese a difendere il figlio Cesone, ad attaccare i
tribuni dela plebe, quei loro atteggiamenti quasi da "re", ma
anche ad arringare il Senato che permetteva quel lassismo nei
costumi. Il tribuno della plebe Aulo Virginio, che aveva
organizzato il processo a Cesone fu pesantemente attaccato e
paragonato al nemico interno Appio Erdonio.
Oltre a questa difesa del figlio e a questo attacco al
tribuno, quasi obbligatori, Lucio Quinzio informò il popolo
romano che, assieme al collega stava organizzando la guerra ai
soliti nemici gli Equi e i
Volsci. L'obiezione dei tribuni fu che non poteva radunare
l'esercito senza il loro consenso. Quinzio ribatté:
« Nobis vero, nihil dilectu opus est,
cum, quo tempore P.Valerius ad recipiundum
Capitolium arma plebi dedit, omnes in verba
iuraverint conventuros se iussu consuli nec iniussu
abituros. Edicimus itaque, omnes qui in verba
iurastis crastina die armati ad lacum Regillum
adsitis. »
|
« Ma noi non abbiamo bisogno di alcuna
leva perché quando Publio Valerio diede le armi alla
plebe per riconquistare il Campidoglio, tutti hanno
giurato di radunarsi agli ordini del console e di
non sciogliersi mai senza suo ordine. Quindi ecco il
nostro editto: voi che avete giurato, dovete
trovarvi domani presso il lago Regillo »
|
(Tito
Livio,
Ab Urbe condita libri, III, 20., Newton &
Compton, Roma, 1975, trad.: G.D. Mazzocato)
|
Questa convocazione toglieva un'arma potente dalle mani dei
tribuni della plebe. Il popolo convocato in armi per deliberare
al di fuori del pomerio, costituiva i cosiddetti "comizi
centuriati", un'assemblea legislativa militare con il potere
di abrogare quanto in città, all'interno del pomerio, veniva
deciso dal potere politico civile. I maneggi dei tribuni della
plebe, che in quel periodo stavano cercando di far approvare la
Lex Terentilia, si sarebbero scontrati con le decisioni
prese da cittadini forzati a votare in modo non libero in quanto
costretti da giuramento a seguire le leggi militari, a tutto
vantaggio del patriziato che avversava l'approvazione di tale
legge.
Cincinnato, alla fine "si rimise alla volontà del Senato"
(cioè della "sua" parte politica) e il senato sentenziò,
abbastanza salomonicamente, che la legge non doveva essere
votata (cosa che interessava al patriziato) ma che l'esercito
non doveva essere convocato. In più i magistrati e i tribuni
della plebe non avrebbero più potuto essere rieletti. I consoli
non ripresentarono la candidatura ma i tribuni della plebe si
ripresentarono fra le proteste dei patrizi che, per ripicca
volevano rieleggere Cincinnato. Fu lui stesso a rifiutare con un
discorso che riportava i senatori al rispetto delle decisioni
prese, in contrapposizione alla malafede della plebe. Furono
eletti consoli
Quinto Fabio Vibuleno per la terza volta e
Lucio Cornelio Maluginense; Cincinnato ritornò alle sue
rurali occupazioni assieme alla moglie Racilia. L'anno seguente
Roma ebbe ancora bisogno di lui.]
Il console
Lucio Minucio Esquilino Augurino era rimasto assediato
all'interno del suo accampamento durante le operazioni di guerra
che i romani avevano portato agli
Equi.
Nemmeno l'altro console,
Gaio Nautio Rutilo, che pur stava vincendo contro i
Sabini sembrava in grado di fronteggiare la situazione. Nei
momenti di grave crisi Roma eleggeva un
dittatore con pieni poteri: per unanime consenso fu deciso
di eleggere Lucio Quinzio Cincinnato.
È il famoso l'episodio, raccontato da Livio e altri storici,
dei senatori che si recano ai Prata Quinctia dove trovano
Cincinnato che sta lavorando manualmente la terra. Lo pregano di
indossare la toga per ascoltare quanto stanno per dire. Racilia
viene inviata alla capanna per recare l'indumento. Cincinnato si
deterge il sudore, si riveste e i senatori lo pregano di
accettare la dittatura.
Cincinnato accettò e ritornò a Roma attraversando il Tevere
su una barca "noleggiata a spese dello Stato" (e ci si chiede
con quale mezzo e a spese di chi i senatori avevano compiuto il
viaggio di andata). Cincinnato che nel frattempo era stato
erudito sulla situazione militare, viene accolto dai tre figli,
parenti, amici e -Livio dice- "dalla maggior parte dei
senatori". È questo forse un indice che il consenso all'elezione
non era stato del tutto unanime? Oppure qualche senatore non
aveva tempo per Cincinnato?.
Sempre secondo il racconto di Livio il neo dittatore,
preceduto dai littori fu "scortato a casa" dalla folla degli
amici.
« Et plebis concursus ingens fuit; sed
ea nequaquam tam laeta Quinctium vidit; et imperium
minimum et virum ipso imperio vehementiorem rata. Et
illa quidem nocte nihil praeterquam vigilatum est in
urbe. »
|
« Accorse in massa anche la plebe, la
quale però non era altrettanto lieta di vedere
Quinzio, sia perché giudicava eccessiva l'autorità
connessa alla dittatura sia perché, grazie a tale
autorità, quell'uomo rappresentava per loro
un'accresciuta minaccia. E quella notte a Roma,
tutti vegliarono »
|
(Tito
Livio,
Ab Urbe condita libri, III, 20., Newton &
Compton, Roma, 1975, trad.: G.D. Mazzocato)
|
Ma Cincinnato si dimostrò al di sopra di meschine ripicche.
Il giorno seguente prese in mano la direzione delle operazioni e
in poche ore radunò l'esercito e lo condusse con marcia forzata
al soccorso dei concittadini assediati nel loro stesso
accampamento. Quella stessa notte iniziò la
battaglia del Monte Algido che vide gli Equi completamente
-anche se non definitivamente- sconfitti.
Lo stesso episodio riassunto da
Eutropio mostra Cincinnato come un povero agricoltore senza
spiegare i motivi della sua situazione finanziaria:
« Sequenti anno cum in Algido monte
ab urbe duodecimo ferme miliario Romanus obsideretur
exercitus, L. Quintius Cincinnatus dictator est
factus, qui agrum quattuor iugerum possidens manibus
suis colebat. Is cum in opere et arans esset
inventus, sudore deterso togam praetextam accepit et
caesis hostibus liberavit exercitum. »
|
« Durante il seguente anno, a causa
del blocco di un esercito romano sul monte Algido a
circa dodici miglia dalla città, Lucio Quinzio
Cincinnato, un uomo che, possedeva soltanto quattro
acri di terra e lo coltivava con le proprie mani,
venne nominato dittatore. Egli trovandosi al lavoro
impegnato nell'aratura, si deterse il sudore,
indossò la toga praetexta, accettò la carica,
sconfisse i nemici e liberò l'esercito. »
|
( *Eutropio,
Breviarium ab Urbe condita lib. I,17
)
|
Cincinnato, una volta liberato l'esercito che era assediato,
distribuì il bottino e le punizioni ai soldati e al console
incapace. Il bottino andò ai suoi soldati, Lucio Minucio depose
la carica di console e rimase in armi al comando di Quinzio, ai
soldati soccorsi non toccò nulla avendo rischiato di essere loro
stessi preda. Questo - a detta di Livio- non creò malumori,
tanto che a Lucio Quinzio venne donata una corona d'oro da una
libbra.
Sempre Tito Livio attribuisce ai "tempi" questo
comportamento. Forse, però i tempi non erano proprio così sobri
e coperti da romana gravitas. La carica di dittatore
poteva durare fino a sei mesi e nessuna altra magistratura o
assemblea aveva i poteri di far decadere il dittatore;
Cincinnato, celebrato il trionfo, dopo soli sedici giorni,
depose la dittatura e tornò privato cittadino. La "rapida"
restituzione della sua autorità assoluta con la conclusione
della crisi viene citata spesso come esempio di buona direzione,
di servizio al buon pubblico e di virtù e di modestia. Ma
leggiamo con attenzione le righe di Tito Livio: nello stesso
giorno del rientro in città Cincinnato ha celebrato il trionfo,
la gente ha fatto baldoria per le strade, al tusculano Lucio
Mamilio, che aveva aiutato l'Urbe, viene conferita la
cittadinanza romana.
« Confestim se dictator magistratu
abdicasset ni comitia M. Volsci, falsi testis,
tenuissent. Ea ne impedirent tribuni dictatoris
obstitit metus; Volscius damnatus Lavinium in
exilium abiit. »
|
« A quel punto il dittatore sarebbe
uscito subito di magistratura, se non l'avesse
dissuaso l'imminenza del comizio che doveva
discutere della falsa testimonianza di Volscio. Il
timore che Cincinnato incuteva distolse i tribuni
dal fare opposizione. Volscio fu giudicato colpevole
e mandato in esilio a Lanuvio »
|
(Tito
Livio,
Ab Urbe condita libri, III, 29., Newton &
Compton, Roma, 1975, trad.: G.D. Mazzocato)
|
Una forma di autodifesa dal potere dei tribuni, dunque.
Comprensibile. Ma Cincinnato, comunque, ritorna ad arare il suo terreno e
condurre una vita fuori dall'agone politico. Ma non del tutto;
nel
450 a.C. ritroviamo Lucio Quinzio con il fratello Tito che
si batte inutilmente contro Appio Claudio il
Decemviro il quale,
« deiectisque honore per coitionem
duobus Quinctiis, Capitolino et Cincinnato... »
|
« Giocando tra le coalizioni, fece si
che non risultassero eletti i due Quinzi, Capitolino
e Cincinnato... »
|
(Tito
Livio,
Ab Urbe condita libri, III, 35., Newton &
Compton, Roma, 1975, trad.: G.D. Mazzocato)
|
Nel
445 a.C., cinque anni dopo la liberazione di Roma dal
nefasto governo dei Decemviri, Gaio Canuleio presentò la sua
legge per abrogare il divieto di matrimonio fra patrizi e
plebei, imposto proprio dai Decemviri con le
Leggi delle XII tavole. È la famosa
Lex Canuleia. Quando alla fine venne approvata i patrizi si
divisero sulla soluzione del problema arrivando perfino, con
Gaio Claudio, zio dell'Appio Claudio il Decemviro, a ipotizzare
l'azione armata dei consoli contro i Tribuni della plebe che
erano, fin dalla loro creazione, dichiarati sacrosancti,
cioè intoccabili e protetti dagli dèi. I due Quinzi, Tito
Capitolino Barbato e Lucio Cincinnato si opposero al sacrilegio.
È quindi chiaro che la Cincinnato, a circa 75 anni, non aveva
abbandonato la politica attiva.
Nel
439 a.C., su indicazione del fratello Tito Capitolino
Barbato al suo sesto consolato, viene eletto dittatore per la
seconda volta. Il presunto tentativo di
Spurio Melio di farsi nominare "re" (titolo aborrito dai
romani dopo la caduta dei
Tarquini) richiedeva un magistrato con le mani più libere e
poteri più ampi dei consoli. La nomina di Lucio Quinzio con la
successiva scelta di questi di nominare
Gaio Servilio Strutto Ahala magister equitum permette
l'eliminazione del presunto "golpista" senza intaccare la figura
pubblica del console e senza uscire dal dettato costituzionale.
Gaio Servilio, inviato dal dittatore a condurre Melio al
processo, lo uccide durante il tentativo di fuga dell'imputato e
il patriziato romano viene liberato da un pericolo.
Straordinario come dopo oltre duemila anni le motivazioni di
certe morti siano ricorrenti. A quanto riporta Tito Livio il
dittatore, alla notizia dell'uccisione esclamò:
« Macte virtute, C. Servili, esto
liberata re publica. »
|
« Gloria a te, Gaio Servilio, che hai
liberata la repubblica. »
|
(Tito
Livio,
Ab Urbe condita libri, IV, 14., Newton &
Compton, Roma, 1975, trad.: G.D. Mazzocato)
|
Cincinnato spiegò poi al popolo riunito che l'azione era
legittima:
« ...etiamsi regni crimine insons
fuerit, qui vocatus a magistro equitum ad dictatorem
non venisset. »
|
« ...anche se fosse stato innocente
dall'accusa di aspirare al regno, Melio non aveva
risposto alla convocazione del dittatore portata dal
maestro della cavalleria... »
|
(Tito
Livio,
Ab Urbe condita libri, IV, 15., Newton &
Compton, Roma, 1975, trad.: G.D. Mazzocato)
|
Indubitabilmente l'obbedienza al dittatore dei romani doveva
essere "pronta e assoluta". Questa dittatura, però, e questa
decisione provocarono moti e tumulti della plebe e favorì la
sempre più utilizzata elezione di
Tribuni consolari al posto dei consoli veri e propri, favorì
l'incremento del potere della plebe impegnata nel
conflitto degli Ordini con il patriziato e la parificazione
dei diritti della plebe nell'accesso alla più alta magistratura
dell'Urbe.
